Camera
Anfore di
velluto
su carte di
cristallo
marmorizzato
armadi di stoffa
e
poltrone di
plastica.
Unghie di tavolo
graffiano il
pavimento
dove mille legni
poggiano
inquieti l’odore
di specchi neri.
Porte di muro
si aprono
grattando l’Aria
che si
frastaglia
in scaglie
bianche
e fuma come
ghiaccio
bollente.
Trine di rame e
reti di garza
confondono
il loro alito
con
uno zoccolo di
marmo.
Bambole
prigioniere di
vetro
guardano
storditamente
l’albero oltre
la finestra
che
porge i suoi
frutti
al tributo della
Vita.
Occhi bianchi e
neri
ti osservano
con ombre grigie
di gambe di
legno.
Quadri bianchi
raccontano
lo sbadiglio
dello studente
ad ellissi di
ferro
che reggono
morbide reti di
lana.
Il grande Fiume
Molto spesso,
affacciata al
parapetto del
lungotevere,
guardo il
lentissimo
fluire del Fiume
attraverso le
foglie dei
grandi alberi
che lo
incorniciano da
ambo i lati. I
loro rami si
protendono,
dalla parte
dell’Acqua,
verso il basso
fino quasi ad
accarezzare gli
alti alberi nati
sulla riva e
abbarbicati al
marciapiede
sottostante che
delimita il suo
corso.
Sulla sua
superficie
galleggiano
sonnacchiose le
foglie cadute e
le piante
acquatiche a
ciuffi spuntano
qua e là.
A volte vedo un
camioncino,
fermo ai bordi
della riva,
aspettare gli
addetti alla
manutenzione che
raccolgono le
foglie e la
sporcizia
ammucchiata agli
angoli del muro.
Oppure coppie di
persone che
vanno in
bicicletta
seguendo la
pista ciclabile
che si snoda
lungo il
margine, o i
canottieri
passare, come in
questo momento,
dove un uomo, su
una canoa
bianca, scivola
lentamente
sull’Acqua
accompagnando,
con i suoi
movimenti, i
remi che si
tuffano e
riemergono
gocciolanti
mentre la barca
scivola via.
Sul muraglione
di fronte
spiccano sulla
pietra figure di
animali. E
quando cammino
seguendo con la
mano il bordo
del muro, mi
piace guardare
il sole filtrare
attraverso gli
alberi e
dipingere
macchie di luce,
piccole e
grandi, sul
marciapiede dove
le foglie secche
scricchiolano
sotto i miei
passi.
Affacciata su
Ponte Sisto
all’orizzonte si
scorge la cupola
che si staglia
contro il cielo
mentre il suo
riflesso tremola
nell’Acqua.
Il battello
sulla destra
della riva
sembra alto sei
piani tanto il
riverbero
dell’immagine è
nitida.
Dall’altra parte
del cavalcavia
ombrelloni e
stand riempiono
la riva fino a
Ripa Grande. E
al tramonto
sprazzi di
arancione
dipingono qua e
là l’Acqua ed il
cielo. Mentre
d’inverno l’aria
impregnata di
umidità da al
Tevere una
patina ovattata
di grigio-blu.
È così che Roma
si specchia nel
suo Fiume
cambiando
toilette secondo
la stagione con
i colori e i
compagni piu’
svariati:
gabbiani,
ciclisti,
canottieri,
battelli pieni
di persone.
Oggi, dopo
qualche giorno
dalla grande
fiumana mi sono
fermata piu’ a
lungo ad
osservare.
Appoggiata con i
gomiti sul bordo
del parapetto
del lungotevere
guardo in basso
l’Acqua, di un
colore
indefinibile ed
indefinito,
scorrere
velocemente con
piccoli gorghi
che portano
all’ingiu’, nel
profondo, pezzi
di plastica
rametti e altro,
che riappaiono
piu’ in là verso
l’altro
viadotto.
L’ultima volta
che sono stata
qui il Tevere
pareva voler
trasbordare
dagli alti muri.
Il ponte
accarezzato dal
suo fluire
sembrava inerme,
anche se
mastodontico, e
dopo tanto
lottare contro
la corrente, era
quasi rassegnato
ad essere
inondato dopo
tanti giorni di
piena. I curiosi
si affacciavano
dal cavalcavia
e dai
muraglioni
per vedere:
molti con
la macchina
2
fotografica
immortalavano
l’evento forse
per dire “ c’ero
anch’io quando
è successo
questo e
quest’altro”.
Nonostante tutto
l’effetto
sorprendente di
quella massa
enorme che
scorreva veloce
a valle guardavo
serena e, anzi,
mi sentivo calma
e tranquilla.
Sarà forse
perché amo
molto l’Acqua. È
l’elemento che
sento piu’
vicino a me. Lei
è il sangue
della Terra che
attraverso le
sue vene ed
arterie –
ruscelli e fiumi
– nutre, disseta
e lava il
pianeta durante
il tragitto
dalla sorgente
al Mare,
all’Oceano.
L’ Acqua è fonte
di Vita e va
usata,
centellinata,
come qualcosa di
sacro.
L’ Acqua è viva.
Oltre che lavare
e purificare ha
una sua memoria
e simboleggia la
natura emotiva
dell’uomo.
È per questo che
il Tevere è così
importante per
una città grande
come Roma.
Attraverso il
sinuoso tragitto
il Fiume pulisce
e trasmuta
l’energia
pesante ed
immette
nell’aria ioni
positivi.
Racconta antiche
storie e porta
con se la
reminiscenza
della vita
millenaria di
questo posto
così antico e
contestato. È un
lavoro enorme
perché noi
umani, convinti
di essere molto
intelligenti,
facciamo del
tutto per
distruggere e
consumare la
nostra esistenza
e la Vita del
fiume, che lo
porta a cambiare
colore, a
dimenticare
pesci e nuotate
di quelli che,
come qualche
decennio fa,
invece di andare
al mare si
tuffavano in lui
e facevano il
bagno
tranquilli.
È una grande
opera che,
finche Lui ce la
farà, assolverà
con tutta la
forza e l’amore
possibile. Poi
quando non potrà
piu’farlo ci
lascerà in
balia di noi
stessi.
Fin dai primi
anni del secolo
scorso nacquero
stabilimenti
lungo le sue
rive, ancora
raggiungibili, e
i vari circoli
dei Canottieri.
Vagliando i
nostri ricordi
possiamo sentire
ancora bambini
strillare,
mentre si
gettano nelle
sue fredde
acque, felici e
gioiosi di poter
giocare a
schizzarsi
addosso.
Come scordare
Mister OK che,
fino a tarda
età, ogni
capodanno per
festeggiare
l’arrivo del
nuovo anno si
tuffava da Ponte
Risorgimento
nelle fredde
acque
sottostanti
applaudito dalla
folla venuta a
vederlo?
E così, come
Siddharta, ferma
sulla riva,
guardo il Fiume.
In Lui c’è,
contemporaneamente,
il passato, il
presente ed il
futuro. Tutti
noi siamo qui ma
anche altrove
per la smania di
avere, vivere,
andare, fare.
Mai prendersi
del tempo per
stare in
silenzio a
nutrire l’Anima.
Per osservare,
senza fretta, il
volo degli
uccelli che
sfrecciano nel
cielo. La
pioggia
picchiettare
dolcemente la
pelle e bagnare
i capelli che
gocciolano sulle
spalle. Oppure,
semplicemente,
fermarsi ad
ascoltare la
Vita, per
conoscersi e
chiedersi: chi
sono? Cosa
voglio
veramente?
Dicevo che oggi
sono qui ferma a
guardare il
Tevere
riadattarsi al
letto che gli
uomini gli hanno
costruito
intorno per la
paura delle
inondazioni che,
ogni tanto
quando era
libero di
scorrere,
allagavano Roma
la “Città del
Fiume”.
3
E sembra quasi
che sia
dispiaciuto di
doversi
rassegnare a
ritornare dentro
i margini del
suo letto
artificiale
tanto che
accelera, di
tanto in tanto,
formando piccole
onde come a
voler andare
ancora sul
marciapiede che
lo incornicia,
lì in basso,
anteriormente al
muro.
Prima che, dopo
lunghi dibattiti
e proposte,
nell’ottocento
si cominciassero
i lavori dei
muraglioni,
conclusi poi
nel 1926, Lui
scorreva libero
e spesso le
inondazioni
coprivano di
fango la parte
bassa di Roma
portando danni,
epidemie e
morte. Si può
ancora leggere
la testimonianza
di questo su
molte targhe nei
muri dei palazzi
della città,
come in via
Borgognona,
dov’è segnata
anche l’altezza
raggiunta
dall’alluvione
del 28 dicembre
1870: e cioè
1,19 metri.
Alla fine dei
lavori
risulteranno
modificati
alcuni antichi
ponti romani
come il Cestio o
S.Angelo e
demoliti i porti
di Ripetta,
tappa del
traffico
fluviale
dall’alto del
Tevere; il porto
di Ripa Grande,
il piu’ grande
porto della
città con
cantieri,
magazzini,
dogana e
attività varie
di cui ora
rimane solo una
doppia scala che
scende verso il
Fiume; il porto
Leonino, piccolo
porto adibito a
scarico delle
merci destinate
al Vaticano e
dove venivano
portati i
travertini e i
marmi usati per
lo piu’ per la
costruzione
della Basilica
di S. Pietro e
molti ambienti
ed attività che
vivevano ed
usufruivano di
Lui come gli
“acquaroli” che
rivendevano
l’acqua, ancora
potabile, del
Tevere: i
“barcaroli”, i
“molinari” che
lavoravano
presso l’isola
Tiberina dove
l’acqua, resa
impetuosa dal
restringimento
dell’alveo del
Fiume, muoveva
i molini, i
“carpentieri”, i
“pescatori o
pescivendoli”
che vivevano
pescando le
numerose varietà
che popolavano
l’allora “biondo
Tevere”: e poi
“marinai”,
“conciatori”,
etc..
L’opera della
costruzione dei
muraglioni
eliminò il
problema delle
inondazioni ma
distrusse anche
il rapporto che
i romani, da
millenni,
avevano con
questo Grande
Portatore di
lavoro,
rifornimenti,
prodotti che
resero grande e
famosa una città
come Roma oggi
solo
spettatrice, e
non piu’
fruitrice, dei
suoi benefici
effetti che si
sono, man mano,
persi nel tempo.
Spazio con lo
sguardo e le
“palafitte”,
così le chiamo
io, ma sono
chiatte e anche
ristoranti
galleggianti sul
Fiume che
l’altro giorno
erano quasi in
procinto di
affondare così
ancorate al
marciapiede da
lunghe funi,
cavi d’acciaio e
passerelle e che
stavano come
bandiere a
galla
nell’acqua, ora
giacciono
mollemente sulla
sua superficie
in attesa di
essere riparate.
Altre hanno
rotto gli
ormeggi che le
tenevano ferme e
si sono
incastrate,
mezze scassate,
tra gli alberi
che sono ai
bordi del
Tevere.
Al lato delle
arcate del ponte
l’Acqua ha
accatastato
bottiglie di
plastica, rami,
buste e tanta di
quella roba che
lei è costretta
a girargli
intorno. C’è
anche un pallone
di calcio che
gira in
continuazione su
se stesso spinto
dalla corrente.
È incredibile
quello che si
può trovare in
Lui! Rami,
rametti e
anche un
albero
4
legati,
attorcigliati da
buste di
plastica. Uniti
da ogni tipo
d’immondizia.
Un uomo
passeggia sul
marciapiede e va
verso la “casa”
galleggiante. Lo
seguo con lo
sguardo mentre
sale e comincia
a cercare
oggetti che
forse non ci
sono piu’
portati via
dalla furia
della piena.
Entra dentro e
comincia a tirar
fuori roba
ammassata e
bagnata, mezza
rotta. Pezzi di
cose portate
dalla corrente,
una sedia ancora
buona e così
via.
Mi tolgo dal
parapetto e
comincio a
camminare piano
sul lungotevere.
E allora posso
ammirare sugli
alberi un nuovo
tipo di fiori.
Moderni e poco
colorati. Anzi
alquanto
scialbi. Buste
di plastica,
pezzi di stoffa
o tela non si
capisce bene,
che stanno lì
come se qualcuno
l’avesse stesi e
penzolano dai
rami, ormai
asciugati
dall’aria oppure
sdraiati,
incastrati tra
gli alberi come
ci fossero
sempre stati,
inquilini
particolari di
un condominio
naturale.
Mi dà un senso
di tristezza
vedere come il
Fiume
ritirandosi
abbia lasciato
di tutto e in
ogni dove. Non
che sia colpa
sua, no. Anzi la
colpa e di chi
abbandona
qualsiasi bene
consumato,
bevuto, fumato,
letto in ogni
luogo pensando
di liberarsi
degli oggetti e
non si rende
conto poi che
questi ti
ritornano nel
momento e nel
modo piu’
imprevisto. Et
voilà… ecco che
ogni cosa viene
presa
trasportata e
buttata alla
rinfusa dove
capita da Lui
che non perdona.
Restituisce
sempre ciò che
raccoglie o
prende strada
facendo.
Pensa che
disastro se
fosse
trasbordato. La
melma insieme ad
oggetti di vario
tipo avrebbero
inondato e
sporcato le case
al centro di
Roma. Allagato
le strade e le
macchine
trasformando
tutto in un
pantano. La
natura ci
restituisce il
trattamento che
le riserviamo e
non credo che
sia il caso di
prendersela con
la pioggia o il
maltempo.
Dovremmo fare
una analisi.
Guardarci in
faccia, senza
trovare scuse, e
prendere
finalmente
coscienza che
siamo tutti uno.
Ciò che noi
facciamo avrà
sugli altri le
stesse
ripercussioni
che ha quello
che fanno gli
altri su noi.
Ormai non
possiamo piu’
nascondere la
testa nella
sabbia come gli
struzzi per non
vedere. Dobbiamo
cominciare da
noi stessi.
Ognuno può e
deve cambiare
prospettiva.
Ancora non è
tardi per
prendere
consapevolezza
dell’impatto
disastroso che
il nostro
comportamento ha
sulla natura e
sulla società. È
troppo comodo
dare la colpa
agli altri. Ma
gli altri siamo
noi. Noi tutti.
Così presi a
cercare di
avere, arrivare,
fare, consumare,
comprare sempre
piu’ non ci
rendiamo conto
nemmeno di
vivere.
Soggiogati dal
consumismo che
ci crea falsi
bisogni perdiamo
di vista la
necessità
primaria dell’
uomo: Essere.
Ci siamo mai
fermati un
attimo ad avere
coscienza dove
siamo e cosa
stiamo facendo
al momento? No?
Facciamolo. E
allora ci
renderemo conto
di non essere
consapevoli. Ci
renderemo conto
di fare e
pensare mille
cose guidando
automaticamente
l’ auto o
camminando
magari in
mezzo a
magnifici
alberi,
5
oppure passando
davanti a
stupende fontane
senza nemmeno
sfiorarle con lo
sguardo.
Mi domando:
siamo mai
presenti a noi
stessi? Quando
stiamo guidando
stiamo veramente
guidando o
facciamo altro?
Quando lavoriamo
stiamo lavorando
o facciamo
meccanicamente
quello che
dobbiamo fare in
attesa di fare
altro o pensando
ad altro? Quando
mangiamo stiamo
mangiando oppure
guardiamo la
televisione o
addirittura
ragioniamo
mentalmente su
altre cose? Non
siamo piu’
capaci di vivere
il presente
troppo
proiettati in
avanti per
raggiungere… che
cosa?
Nella mente si
affollano
pensieri,
riflessioni e
domande mentre
continuo a
guardare in
basso il Fiume
che scorre
lasciando dietro
se una leggera
canzone
frusciante.
Musica che entra
dentro l’Anima e
porta via la
tristezza e la
malinconia. La
sento dentro.
Sta lavando la
mente ed il
cuore
trasmettendomi
una fresca
tenerezza e la
gioiosa speranza
di un futuro
migliore.
Mentre il vento
accarezza piano
la pelle e le
foglie tremano e
cantano mosse
dall’aria il
ritornello di
Vita eterna
socchiudo gli
occhi e mi
lascio andare a
quest’attimo
infinito di
gioia profonda.
Mi espando oltre
il mio limite e
divento aria,
albero, acqua,
casa. Faccio
parte del tutto
in un continuum
d’Amore e
d’eternità. Sono
in un’altra
dimensione e
tutti i rumori
intorno si
attenuano fino a
svanire in un
silenzio pieno
di musica,
l’armonia del
mondo unita alla
mia nota
personale, ed
allora scoppia
in me la Luce e
come un fuoco
d’artificio, che
lentamente
sparge i suoi
punti luminosi e
colorati
rischiarando a
giorno il blu
della notte,
ogni mia cellula
respira e
s’illumina.
Rimango in
silenzio a
godere di questo
momento eterno
sorda al
richiamo
giornaliero.
Inspiro
profondamente e
riprendo
contatto con la
città ed il
Tevere che
sembrano piu’
splendenti e
luminosi, come
dopo un
acquazzone, e
una pace gioiosa
riempie ogni
atomo del mio
Corpo ancora
turbato
nell’aver
toccato la
Creazione
Universale.
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